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Ottieni i risultati migliori quando sei amorevole o duro nei tuoi confronti? (Parte 2)

Nel mio ultimo post ho raccontato come lo psicologo sportivo Philipp Röthlin mi abbia introdotto al concetto di autoempatia, un concetto tratto dalla psicologia clinica in base al quale essere gentili e compassionevoli con sé stessi fa bene alla salute mentale e al benessere.

Nell’ambito di un importante studio, Philipp e il suo team stanno valutando se questa scoperta possa essere utile anche allo sport. Egli ritiene che l’obiettivo dovrebbe essere quello di non vincolare la propria autostima a una prestazione. Avendo compassione verso sé stessi, ci si può accettare e dire: «Vado bene così come sono, indipendentemente da ciò che faccio». In questo modo si crea un ambiente interiore che ci permette di lavorare sui nostri punti deboli. E questo senza deprimersi o doversi proteggere dalle critiche.

Non c’è praticamente nessun ambito della vita in cui il puro risultato, il valore esteriore siano più importanti che nello sport. Tutto ciò che si fa nello sport è finalizzato al risultato. Ma più Philipp mi parlava dell’autoempatia, più mi sembrava plausibile che avesse ragione. Mi è sorta spontanea la domanda: Avrei potuto avere ancora più successo nella mia carriera di ginnasta se mi fossi presa meglio cura di me? Dopotutto la mia carriera non è finita forse troppo presto, a causa di un burnout?

E mi sono chiesta anche: se Philipp e i suoi colleghi dovessero effettivamente stabilire nel loro studio che l’autoempatia è un concetto efficace anche nello sport, non sarebbe necessario un vero e proprio cambio di paradigma per mettere in pratica questa nuova scoperta? Voglio dire, in tutto il mondo si viene avviati allo sport da bambini, i giovani atleti vengono istruiti fin dall’inizio sul fatto che solo il duro lavoro e il senso del sacrificio possono portarti al successo. Sport significa sofferenza, spremersi fino al midollo; è così da decenni, perlomeno negli sport atletici, nelle discipline olimpiche con una lunga storia.

Philipp era perfettamente d’accordo con me. Ma vuole anche fare la differenza: «Non c’è dubbio che per ottenere prestazioni eccellenti sia necessario lavorare sodo. Ma il lavoro duro implica anche durezza nei propri confronti? Non ne sono così sicuro. Sono sorte in me due domande alle quali desidero trovare una risposta nel nostro progetto. Primo: se siamo duri con noi stessi perché crediamo che sia necessario per arrivare al successo, quale prezzo ci troviamo a pagare? E secondo: le prestazioni non potrebbero addirittura migliorare se avessimo un approccio diverso verso lo sport?».

Non vedo l’ora di scoprire a quali risultati arriveranno Philipp e la sua équipe. Forse esiste davvero un altro modo di praticare lo sport agonistico, un modo più rispettoso nei confronti delle atlete e degli atleti. Sarebbe bellissimo.

 

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